Ex imam e soldati dell’Is nel carcere dei jihadisti di Rossano. “Cercano nuove reclute, per questo sono isolati”

carcere RossanoROSSANO –  È in una cella tre metri per tre, un letto, un televisore ingabbiato da una rete, un tavolo scarno, che hanno esultato il 13 novembre dopo la strage di Parigi. È in due delle celle di questo casermone bianco, a due passi dal negozio di “Caccia e pesca”, che hanno gridato di gioia all’attentato in Belgio. È qui, mentre giocavano a un biliardino, che hanno sorriso commentando la strage di Dacca. Un lungo corridoio pulito, freddo come sanno essere soltanto le carceri. Dieci celle tutte su un lato, due piani. Braccio Alta Sicurezza 2, carcere di Rossano Calabro.

Non è Guantanamo, e non è nemmeno Fleury-Mérogis, la struttura a sud di Parigi dove è detenuto Salah, il terrorista di Molenbeek. Eppure è in questa prigione calabrese, dove nessuno tra gli agenti parla l’arabo, che sono passati negli ultimi mesi tutti i jihadisti d’Italia.

Venti fino a qualche mese fa, nove oggi (gli altri sono stati da poco trasferiti, in Sardegna soprattutto), il Dipartimento penitenziario ha creato qui – una prigione nuova, pensata per gli ergastolani di criminalità organizzata e quindi con standard di sicurezza elevati – il principale centro di detenzione per chi è stato condannato, o è accusato, di terrorismo in Italia. L’esercito ne controlla il perimetro 24 ore su 24, all’ingresso c’è un ragazzo in mimetica.

I presunti terroristi sono nell’area numero 2, dove ieri mattina è entrata l’eurodeputata del Movimento 5 Stelle, Laura Ferrara. Tunisini, libici, iracheni, curdi, pachistani, tre di loro secondo gli inquirenti sono direttamente da collegare all’Is. Quattro ad Al Qaeda, 2 ad Al Nusra. C’è Hamil Mehdi, il presunto foreign fighter di origine tunisina arrestato dai poliziotti del Questore Luigi Liguori in Turchia diretto, secondo l’accusa, in Siria per combattere. Ci sono Neuroz e Jalal, due dei presunti adepti del Mullah Krekar, che ai bambini invece che i cartoni animati facevano vedere video di guerriglie ed esecuzioni, per indottrinarli alla jihad sin da subito. “Ma erano tutti giochi” hanno detto ieri, nel corso della visita. Nei giorni scorsi un Imam è stato trasferito perché le sue prediche stavano diventando pericolose. Un altro, Hosni, dopo essere stato assolto dalla Cassazione (che ha annullato le condanne di primo e secondo grado) è stato subito espulso dal ministro degli Interni, Angelino Alfano, con la motivazione – si legge negli atti – che in carcere avrebbe promosso “azioni terroristiche da attuare in danno degli Stati “infedeli””.

Quelli del braccio numero 2 non possono avere alcun contatto con altri detenuti di questo carcere, né i mafiosi che si trovano nell’alta sicurezza né i detenuti comuni. Al momento hanno tutti celle singole e occupano soltanto uno dei due piani. Nel fondo del corridoio è stata creata per loro una zona ricreazione: c’è un tavolo con degli appunti, un biliardino. Hanno abbattuto alcuni muri per creare aree di socialità più ampie, all’aperto. Mentre tre volte al giorno, com’è segnato sul calendario appeso nello spazio comune, vengono accompagnati al piano inferiore per pregare.

“Da un punto di vista strutturale la situazione è soddisfacente” spiega l’eurodeputata Ferrara. “Il problema sono numero e formazione del personale”. Nessuno parla l’arabo. Gli agenti sono la metà di quelli che dovrebbero essere. “Oggi ne ho contati e mi hanno detto di essere tanti…”. “Da poco l’amministrazione ha promesso corsi di formazione che però servono a pochissimo” sostiene Donato Capece, segretario nazionale del Sappe. “Apriamo i concorsi subito a ragazzi madre lingua arabi. C’è troppa sufficienza nell’approccio al problema: si dice che la prigione sia l’università del crimine. Ma noi, in questa maniera, come facciamo a fare il nostro lavoro? Che strumenti abbiamo per osservare il comportamento dei detenuti?”.

All’eurodeputata ieri hanno raccontato che possono passare settimane prima che si possa tradurre, per esempio, un documento che può essere utile ai fini investigativi. Mentre alle volte sono gli stessi detenuti a fare da interpreti.

“Il tema della radicalizzazione è molto delicato” ammette il numero uno del Dap, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Santi Consolo. “E noi stiamo lavorando per creare all’interno delle carceri corsi di deradicalizzazione, stando molto attenti a segnalare comportamenti anomali ed evitare i contatti pericolosi”.

Secondo gli ultimi dati forniti dallo stesso ministro della Giustizia, Andrea Orlando, sono 345 i detenuti interessati dal fenomeno della radicalizzazione: di questi 153 sono “classificati a forte rischio di radicalizzazione: il carcere – ha scritto Orlando – è un luogo dove si realizzano forme di radicalizzazione rapida e perché si tratta di soggetti vulnerabili. L’isolamento si trasforma in vendetta e odio contro la società”. Inclusione e non isolamento per fermare l’odio, dice il ministro. Quello non è soltanto un biliardino. Ma un’arma contro il terrorismo.

Fonte: La Repubblica

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