“Se di fronte alla malattia il medico scappa, chi resta?” Quando indossare il camice bianco è davvero una missione

“Se di fronte alla malattia il medico scappa, chi resta?” Carlo Urbani è tutto in queste parole. In questa risposta data alla moglie che gli chiedeva di non rischiare dinanzi ad una malattia sconosciuta. Parole che ritraggono un uomo, un medico, un missionario.

E’ inevitabile in questi giorni in cui siamo travolti e sconvolti dall’epidemia del coronavirus che il pensiero corra a lui, Carlo Urbani, medico di Ancona coordinatore delle politiche sanitarie dell’OMS.

Era il marzo del 2003 e l’umanità tremava di fronte al virus della Sars (una polmonite atipica e aggressiva). Arrivato dalla Cina, il virus si era diffuso in trenta Paesi, uccidendo centinaia di persone in pochi giorni. Tutto partiva da un hotel di Hong Kong dove aveva alloggiato un ricco uomo d’affari americano venuto dalla Cina. Carlo Urbani aveva 47 anni, da solo nell’ospedale di Hanoi, isolò il virus, curò i medici che via via si ammalavano e organizzò i meccanismi di difesa per tutto il mondo.

Una volta lanciato l’allarme al governo e all’Oms, Urbani convinse le autorità locali ad adottare la quarantena ed inizia i suoi studi. Neanche due settimane dopo dall’incontro con il paziente, nel marzo del 2003 si sente male durante un volo e capisce di essere stato contagiato dal morbo. Una volta atterrato chiese subito di essere ricoverato in quarantena, poi concede ai medici giunti dall’Australia e dalla Germania di utilizzare i tessuti prelevati dai suoi polmoni per analizzare il virus. A fine marzo Carlo Urbani muore salvando migliaia di vite, non soltanto per la scoperta della SARS, ma anche per il metodo anti-pandemie da lui realizzato e che viene utilizzato ancora oggi dall’Oms come protocollo internazionale.

“La battaglia vittoriosa contro la Sars tornerà certamente utile quando si presenterà un’ennesima sfida pandemica” disse qualcuno dopo la sua morte. Ed ecco che quell’ennesima sfida si è ripresentata nel coronavirus, della famiglia della Sars, che sta mettendo in subbuglio il modo intero; si usano i protocolli di Carlo Urbani, circa 20 anni dopo… Altri medici, con altre storie, sono impegnati in ogni parte del mondo per soccorrere, curare, guarire. In Italia in queste ore sono più di 2000 i medici infetti. Altre storie, dicevamo, come quella di Daniele Macchini, medico alle Cliniche Humanitas Gavazzeni la cui testimonianza in queste ore sta facendo il giro del web: “Vi assicuro che quando vedete gente giovane che finisce in terapia intensiva intubata, pronata o peggio in Ecmo (una macchina per i casi peggiori, che estrae il sangue, lo ri-ossigena e lo restituisce al corpo, in attesa che l’organismo, si spera, guarisca i propri polmoni), tutta questa tranquillità per la vostra giovane età vi passa” dice riferendosi alla popolazione che ancora azzarda a violare i decreti di questi giorni.

Macchini, lavora a Bergamo, dove opera anche Christian Salaroli, anestesista, rianimatore, che tristemente fa sapere agli irresponsabili che ancora si aggirano per strada, che negli ospedali si decide in base all’età e alle condizioni di salute chi curare: “Alcuni di noi, primari o ragazzini, ne escono stritolati … State a casa”.

“Come si vive?” chiedo ad una tra le mie più care amiche, Milena Di Meglio, medico, presso l’ospedale di Ischia: “Si vive nello sconforto di stare in una piccola comunità. Un caso di positività al coronavirus in una città molto grande, ti renderai conto, che ha un margine di dispersione notevole rispetto allo sconforto che vivi in una realtà confinata, limitata dal mare. E quando abbiamo dovuto fare il nostro primo tampone, la sensazione è stata molto brutta: un silenzio che io non ho mai vissuto in un pronto soccorso dove normalmente è tutto molto frenetico, molto dinamico, rumoroso. Sai, il pronto soccorso, come quello dove aspetti una risposta così importante, dove c’è una zona di isolamento, dove tutti stanno con le maschere, tutti in trepida attesa del risultato…Un risultato di cui in cuor tuo conosci già l’esito, si ferma. Aleggiava nell’aria la sensazione inspiegabile di chi sa che deve accadere l’inevitabile. E’ una sensazione snervante” conclude con la voce mesta.

Nelle parole di questi medici, ritroviamo i tanti, tantissimi altri medici che in questi giorni stanno raddoppiando i turni: non dormono, non mangiano, non vedono le loro famiglie. Testimoni silenziosi e nascosti di un’umanità a cui manca il respiro; che lotta, cade e si rialza oppure si arrende. Un’umanità che si concretizza in un sorriso a chi ti soccorre, o in una lacrima silenziosa che solca il viso dignitosamente. Un’umanità fatta anche dagli infermieri, altri angeli silenziosi, sfiniti, impauriti; o dagli operatori che su e giù cercano di correre più veloci del virus.

“Sai qual’ è la sensazione più drammatica? Vedere i pazienti morire da soli, ascoltarli mentre t’implorano di salutare figli e nipotini” dichiara la dottoressa Francesca Cortellaro, primario del pronto soccorso dell’Ospedale San Carlo Borromeo di Milano: “I pazienti Covid-19 entrano soli, nessun parente lì può assistere e quando stanno per andarsene lo intuiscono. Sono lucidi, non vanno in narcolessia. È come se stessero annegando, ma con tutto il tempo di capirlo. L’ultimo è stato stanotte. Lei era una nonnina, voleva vedere la nipote. Ho tirato fuori il telefonino e gliel’ho chiamata in video. Si sono salutate. Poco dopo se n’è andata. Ormai ho un lungo elenco di video-chiamate. La chiamo lista dell’addio. Spero ci diano dei mini iPad, ne basterebbero tre o quattro, per non farli morire da soli”.

Come lei tanti altri: nel telefono i numeri dei familiari dei pazienti da chiamare quando ormai le cose precipitano. Medici che diventano dispensatori di consolazione. Spesso denigrati, criticati, offesi nel loro lavoro quotidiano. Fanno miracoli con il poco che hanno a disposizione. Moltiplicano turni, letti, e mani. Con loro, infermieri ed operatori. Quando tutta questa storia sarà finita non bisogna dimenticarsi di nessuno, ma anzi come segno di riconoscenza mettere in grado tutti loro, di lavorare in strutture più efficienti ed attrezzate.

“Se puoi curare, cura; se non puoi curare, lenisci il dolore; se non puoi lenire il dolore, consola”, Ippocrate a chiare lettere anche nel profilo Twitter di una dottoressa anestesista rianimatrice delle Marche. Toccante è la sua testimonianza: “Puoi parlare con mio figlio al telefono? Io non ho fiato per parlare. Salutamelo tanto. Digli che non si deve preoccupare per me” le ha detto un paziente. “Ci ho parlato. Gliel’ho salutato. Poi mi sono chiusa in bagno, con la faccia sfregiata, e ho pianto. Ho pianto tutte le lacrime che avevo”, conclude.

“Oggi un paziente che gestiamo in reparto perché non abbiamo posto in rianimazione mi ha stretto forte la mano e mi ha sussurrato con la paura negli occhi “non mi lasciare”. “No che non ti lascio. Non ti lascio solo mai, cascasse il mondo”, scrive ancora sui social la dottoressa delle Marche.

Rianimazione: “Restituire l’anima a chi l’ha perduta”, fu spiegato, ancora giovane studente, a Giovanni Albano, Primario, di una delle tante rianimazioni italiane che dalle pagine di Avvenire scrive: “Quando questo accadrà (si riferisce alla fine dell’emergenza nda) chi si è ammalato capirà tante cose e chi ha curato sarà un medico o un infermiere migliore. Ma il vero valore sarà ciò che tutto il resto dell’umanità che per sua fortuna ne è rimasta fuori dovrà cogliere: il valore della solidarietà, dell’unione, dell’inutilità di moltissime cose e della grandezza di poche”.

Danno da riflettere queste parole perché mai come ora stiamo toccando con mano questa missione del medico, rianimare; non solo un corpo a volte ingombrante in tutto il suo dolore, ma anche e soprattutto l’anima.

Il dottor Carlo Serini sempre del San Carlo invece scrive: “Faccio il rianimatore da anni, ma ora è diverso. Stanotte mi sono avvicinato a un anziano. Gli avevamo messo il casco per la respirazione. Lui si guardava intorno spaurito. Mi sono chinato e lui ha sussurrato – “Ma allora è vero? Sono grave? – Ho incrociato quel suo sguardo da cane bastonato e ho capito che stavolta non avevo risposte”.

Il pensiero corre di nuovo a Carlo Urbani, alle sue parole. Andando ad Oslo, a ritirare il premio Nobel per la Pace per Medici senza Frontiere, scriveva: “Se c’è un mutilato, gli occhi del chirurgo sono sulle ferite, ma quello sguardo poi va alzato”.

Medici che si chinano, consolano, soccorrono, piangono. Spesso si sentono sopraffatti, senza risposte. Poi alzano lo sguardo tutti insieme, con infermieri e operatori, per dirci di una grande lezione “sull’inutilità di moltissime cose e della grandezza di poche”.

Luisa Loredana Vercillo

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